giovedì 28 gennaio 2016

Con gli occhi chiusi

I bambini spesso nascono di notte.
Non è una regola assoluta, ma per me l'unica realtà conosciuta. Io sono nato di notte, mia figlia è nata di notte, si dice che anche Cristo sia nato a mezzanotte.
Forse perché vengono dalla notte, teneramente protetti dal tepore del ventre materno e accarezzati dal cullare ritmico del respiro, il loro unico ambiente conosciuto.
Sono stati al buio e sono stati bene, ancora non sanno quali e quante sorprese potranno scoprire, quando scopriranno la luce.
Ma avranno tempo per conoscere la luce, per capire i colori, per aprire gli occhi ed imparare a vedere.
Adesso il buio è ancora così dolce e protettivo.
D'altronde come può un bimbo averne paura? Il buio non gli nasconde nulla, perché è ancora il nulla la sola cosa che lui conosce.
Ha appena imparato a respirare, una cosa per volta. Con difficoltà e con paura, la prima ondata di aria gli è entrata nei polmoni, come un colpo di vento improvviso.
Già, che colore ha il vento?!
Che importa. Che bisogno ha, lui, di vedere il vento, che bisogno ha di vedere il volto della mamma?
E per questo che i bambini vorrebbero nascere solo di notte, per non dover chiudere gli occhi, ma poter restare ancora un poco li, senza sapere, senza vedere e continuare a sognare.
"No mamma, non darlo alla luce, tienilo ancora un poco con te, proteggilo ancora con l'ombra del tuo corpo, gli hai dato la vita lascia che sia la luce a venirlo a cercare, c'è tempo!"
Chiudi gli occhi anche tu, mamma e ascolta il suo primo respiro. E' notte, ha un attimo di vita, forse ha gli occhi chiusi, forse no.
I bimbi che nascono di notte non hanno paura di chiudere gli occhi perché sanno che anche con gli occhi chiusi il mondo non scompare.
I bimbi che nascono di notte non hanno fretta di aprire gli occhi, perché sanno che solo così possono continuare a sognare.

Forse è per questo che noi, bimbi nati di notte, abbiamo bisogno di tanto in tanto di chiudere gli occhi, per tornare così, ignari come allora.

martedì 12 gennaio 2016

Incipit

Torino, esterno giorno passeggiando sotto i portici:

“Hai visto il mio nuovo cappello?” -  disse lui, sinceramente goduto nel toccare la pelle morbida e ricordando la gentilezza del negoziante che aveva visitato poco prima. “Non mi piaceva più la mia testa” - continuò ostentando profonda filosofia per nascondere che l’aveva comprato per pura vanità e per darsi un tono.
Lei sulle prime si lasciò andare alla bassa ironia, poi sorrise e pensò che quel cappello gli stava proprio bene.

Lei sapeva bene che, quando viene il momento di mettere la testa a posto o di fare ordine in una mente sconclusionata, le signore vanno dal parrucchiere: le tinte tolgono il grigio dall’anima, le mèches rischiarano i pensieri, un buon taglio rimette in forma anche uno spirito ammaccato. Anche una semplice messimpiega ha il suo effetto benefico nel riordinare le idee.
Un servizio di qualità, poi, con taglio, massaggio, colore e manicure vale più di qualsiasi psicanalista dal doppio cognome.
Certo che lui con ciocche e permanente proprio non ci stava... il cappello sì.

Lei pensò ai cappelli di suo padre, alle scuse che accampava (ah, la sinusite!) per poterlo indossare anche d’estate, alle pile di cappelli ordinate per colore nei negozi dove lo accompagnava quando era bambina. Chissà dove saranno finiti i cappelli di suo padre…
Vorrebbe accarezzarne uno di quelli di tweed, quelli un po’ rigidi, ma forse vorrebbe soltanto poter vedere suo padre, ascoltarlo ancora un po,  pranzare un giorno a casa sua.

Anche lui si era perso nei suoi pensieri.

Lui avrebbe voluto un cappello più stretto, in fondo voleva semplicemente nascondersi e quelle falde troppo larghe davano un senso estetico eccessivo. Aveva provato a piegarle verso l’alto tentando di ridurre l’impatto visivo, ma inutilmente visto che il problema delle dimensioni dipendeva dalla testa e non dalla fattura.

Aveva passato una vita a cercare di nascondere quei tratti somatici che non amava, esagerati, pensava, per dimensione e ruvidità. Anche se poi il problema di non piacersi è marginale se non si passa davanti ad uno specchio, per cui preferiva pensare a se stesso come immagine del padre, cercandone le sembianze tra rughe e tratti somatici, là dove le somiglianze erano più cariche di nostalgia che di genetica.

Lei lo vezzeggiava nel guardare con ironia e interesse quel nuovo look, ma lui sapeva bene che i pensieri che le passavano per la testa non erano esattamente coerenti con le parole. Ma ne apprezzava l’impegno e le leggeva negli occhi pensieri lontani.

Chissà se quei pensieri incontrollati e selvaggi si erano incontrati per qualche casuale motivo, là dove dove la complicità non è più un gioco ma una semplice intesa.

Magari pensando al padre, ai padri…